L’elezione di Metsola alla presidenza del Parlamento Europeo e i nuovi equilibri tra i partiti politici europei

di Enrico Calossi, OPPR

L’elezione di Roberta Metsola ha rappresentato un cambiamento del quadro politico rispetto al contesto che due anni e mezzo fa consentì l’elezione del recentemente scomparso David Sassoli. Apparentemente non sembra ci siano novità, perché ormai dagli anni ottanta il parlamento europeo è guidato da una presidenza popolare, per una metà della legislatura, e da una presidenza socialista, per l’altra metà. O viceversa. E anche questa volta la prassi della Grand Coalition (o Grosse Koalition, se si vuol dar credito ad una crescente germanizzazione dell’Unione) tra Popolari, Socialisti e Liberali appare confermata. Solo nella legislatura 1999-2004 il patto tra Popolari e Socialisti non fu rinnovato perché i Popolari preferirono accordarsi con i Liberali. Infatti, nella prima parte della legislatura, la presidenza spettò alla popolare Nicole Fontaine, nella seconda parte, al liberale Pat Cox.

Le prime difficoltà nel ‘core’ dei partiti europei e l’elezione di Sassoli

Nel 2014, all’inizio della nuova legislatura, il socialista Martin Schulz fu eletto presidente del Parlamento con una confortevole maggioranza che rifletteva l’accordo tra Popolari, Socialisti e Liberali. Nel gennaio del 2017 però il consueto passaggio di testimone tra Popolari e Socialisti non avvenne in modo indolore. Infatti, in quell’occasione ci furono sei candidati: di fatto ogni gruppo, tranne i Liberali, presentò un proprio candidato. Le regole del PE, poi, impongono alla quarta votazione la limitazione delle candidature ai due più votati nella terza votazione. Così il popolare Antonio Tajani poté battere il socialista Gianni Pittella. Chiaramente il sistema di partito era di fronte ad una rottura, mascherata però dal fatto che l’alternanza tra Socialisti e Popolari si era comunque realizzata.

Nel 2019, la tradizionale alleanza sembrava poter essere rinnovata. Infatti, David Sassoli fu esplicitamente designato in seguito al tipico accordo tra Popolari, Socialisti, e Liberali, definito spesso nella letteratura specialistica come ‘core’ del sistema partitico a livello europeo. Però, i risultati furono diverso. Infatti, Sassoli, nonostante avesse sulla carta il sostegno di 444 deputati, ricevette al primo turno solo 325 voti, sotto la soglia dunque dei 332 voti necessari per essere eletto. Agli altri candidati, il conservatore di ECR Jan Zaharadil, alla verde Ska Keller e alla candidata della sinistra del gruppo Gue-Ngl, Sira Rego, andarono rispettivamente 162, 133 e 42 voti. La candidata verde ottenne dunque 59 voti in più rispetto a quanti fossero i membri del gruppo Verde/Regionalista (74 deputati) e il conservatore ottenne, addirittura, ben cento voti in più rispetto all’entità del gruppo di riferimento (i Conservatori e Riformatori Europei / ECR) che constava di 62 seggi.

 

Tabella 1: La composizione dei gruppi politici al Parlamento Europeo, 2019 e 2022

Famiglia Politica Nome gruppo Acronimo Seggi 2019

Pre-Brexit

Seggi 2022

Post-Brexit

Popolari Gruppo del Partito Popolare Europeo EPP 182 177
Socialisti Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici in Europa S&D 154 144
Liberali Renew Europe RE 108 101
Verdi e regionalisti Verdi e Alleanza Libera Europea G-EFA 74 72
Destra Sovranista Identità e Democrazia ID 73 70
Conservatori Conservatori e Riformatori europei ECR 62 64
Sinistra The Left GUE-NGL 41 39
Non iscritti Non iscritti NI 57 39

 

Servì dunque un secondo turno di votazione. Questa volta Sassoli riuscì a migliorare il proprio risultato, passando a 345 voti (cioè 11 più del necessario), ma ancora ottenendo molto meno dei 444 voti a disposizione dei gruppi popolare, socialista e liberale. E pertanto, il 3 luglio 2019, Sassoli divenne presidente del parlamento europeo, anche se il risultato rappresentava un chiaro segnale del peggioramento dei rapporti tra i tre gruppi.

Per quanto riguarda le 14 Vicepresidenze del Parlamento Europeo, quattro andarono ai Popolari, tre ai Socialisti, due rispettivamente ai Verdi e ai Liberali e uno rispettivamente alla Sinistra e ai non iscritti (in particolare al Movimento 5 Stelle).

I gruppi parlamentari e la scelta delle cariche monocratiche dell’Unione

Le difficoltà nei rapporti tra i gruppi del ‘core’ riemersero pochi giorni dopo quando, il 16 luglio 2019, la proposta del Consiglio Europeo di eleggere Ursula Von Der Leyen alla Presidenza della Commissione fu approvata dal Parlamento Europeo. Anche questa volta, la Von Der Leyen avrebbe potuto attendersi i 444 voti a disposizione di Popolari, Socialisti e Liberal. In realtà i voti a favore furono solo 383, cioè appena nove sopra il quorum di 374 voti, nonostante anche la nutrita pattuglia parlamentare del Movimento 5 Stelle (nel gruppo dei Non Iscritti) avesse dichiarato di votare a favore della Von Der Leyen. Questo fatto fu particolarmente interessante per gli osservatori italiani, che infatti coniare “maggioranza Ursula” lo schema a sostegno della Von Der Leyen, anche per sottolineare lo spostamento del M5S su posizioni filo-europeisti. Comunque, anche in questa occasione, seppure non al livello di quanto successo quindici giorni prima per Sassoli, i tre partiti non riuscirono a assicurarsi tutti i voti a disposizione.

Nell’autunno del 2019 continuò la designazione delle posizioni monocratiche del sistema politico europeo. La scelta dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera confermò, con la designazione dello spagnolo Josep Borrell, il tradizionale predominio su questa figura a vantaggio dei socialisti (gli alti rappresentanti precedenti, Solana, Ashton e Mogherini, erano tutti socialisti). Però la scelta di un liberale, il belga Charles Michel, alla carica di Presidente del Consiglio Europeo, fece ipotizzare la nascita di una saldatura tra Liberali e Popolari più solida rispetto a quella ormai quarantennale tra Popolari e Socialisti.

Così si alimentarono rumors di una probabile rottura del patto tra socialisti e popolari, fino al punto che, nell’autunno del 2021, sembrava ormai molto probabile una ricandidatura di David Sassoli alla presidenza. Tra le varie ragioni, oltre alla cristallizzazione delle difficoltà tra socialisti e popolari, figurava anche l’aver speso gran parte dell’ultima semi-legislatura nel concentrare l’impegno della presidenza quasi unicamente a garanzia dell’agibilità fisica e politica del parlamento in tempi di Covid Questo aveva spinto Sassoli e i socialisti a tentare la strada della nuova candidatura. In effetti, sulla carta, se Sassoli fosse stato in grado di intercettare non solo gli scontati voti dei Socialisti e della nutrita pattuglia del M5S, ma anche buona parte dei voti dei Verdi, della Sinistra e soprattutto dei Liberali, sarebbe riuscito nell’impresa della rielezione. Anche perché, dall’altro lato, i Popolari non avrebbero potuto ampliare molto la propria base elettorale, temendo di doversi alleare solo con gli euroscettici sovranisti dei gruppi ID e ECR.

A metà dicembre, però, anche per il peggioramento delle sue condizioni di salute, Sassoli dichiarò ufficialmente di ritirare la sua candidatura, con l’obiettivo di “non spaccare” la “maggioranza Ursula”, cioè, per l’appunto, l’alleanza tra Popolari, Socialisti, Liberali e Pentastellati. La strada appariva dunque spianata per una candidatura dei Popolari, i quali già a novembre 2021 avevano rotto gli indugi e avevano proposto la giovane maltese Roberta Metsola alla presidenza.

Roberta Metsola ottiene voti anche dalla destra euroscettica e sovranista

A inizio gennaio si stava quindi prospettando lo stesso schema del 2019, in base al quale Metsola era la candidata del ‘core’ rappresentato da Popolari, Socialisti e Liberali. E ancora come nel 2019, Verdi, Sinistra e Conservatori avrebbero tutti presentato un proprio nome di bandiera. Probabilmente, a seguito di questo schema, i Socialisti sarebbero stati anche pronti a non votare (ricordo che il voto è segreto) in massa per la Metsola. Sia per rendere pan per focaccia per lo sgarbo incassato nel luglio 2019 da Sassoli (i 100 voti in meno), ma anche perché le posizioni chiaramente anti-abortiste della politica maltese mal collimano con gli ideali politici dei socialisti europei.

Ma il fatto nuovo, che ha scardinato gli schemi, è stato l’inaspettato ritiro del candidato conservatore e l’esplicita presa di posizione di alcuni euroscettici di destra, sia tra i conservatori più ‘soft’ di ECR, guidati da Giorgia Meloni, sia tra quelli più ‘hard’ di Identità e Democrazia (ID), a favore della Metsola, come ad esempio ha fatto esplicitamente Matteo Salvini. Il risultato infatti è stato superiore a quanto ragionevolmente la Metsola poteva aspettarsi: di fronte ad una platea potenziale di 422 voti provenienti dai tre partiti ‘core’, la giovane neo-presidente ha ottenuto 458 voti, quindi 36 più del previsto. Ciò dimostra che è stata in grado di pescare anche nell’elettorato euroscettico e conservatore. Probabilmente l’apporto del voto conservatore è stato anche maggiore dei 36 voti in più. Infatti, visto che le altre due candidate alternative, la verde Kuhnke e ancora Rego della Sinistra hanno ottenuto 47 voti in più rispetto ai loro rispettivi 72 e 39 voti previsti, è molto probabile che i voti in più ottenuti dalle due candidate provengano da deputati socialisti o liberali. Dunque questi 47 voti sarebbero dovuti a mancare alla Metsola. Ma sarebbero stati ampiamente bilanciati dall’arrivo di voti euro-scettici e conservatori. Dunque, se in più occasioni in passato si era ventilata la possibilità di un allargamento del ‘core’ dei gruppi del PE verso l’area ambientalista e verde, questa volta l’allargamento è stato a destra. Resta da capire quanto ciò sia episodico o quanto possa avere conseguenze più durature.

Un altro segnale da cogliere arriva dall’elezione dei nuovi vicepresidenti del Parlamento. Ovviamente si inverte il rapporto di forza tra Popolari e Socialisti, perché chi detiene la presidenza ottiene, come bilanciamento, meno vice-presidenti. Quindi da gennaio 2022 i Socialisti hanno cinque vicepresidenti, mentre i Popolari ne hanno tre. Si rafforzano però i Liberali, passando da due a tre e i conservatori di ECR eleggono un primo vicepresidente, che non avevano nel 2019. In compenso, mentre la Sinistra continua ad eleggere un suo vicepresidente, i Verdi passano da due a uno e i non-iscritti (in particolare il Movimento 5 Stelle) perde il suo unico vicepresidente. Una dinamica quindi che sembra confermare uno slittamento verso destra degli equilibri interni al Parlamento europeo.

Le prospettive future

Alcuni leader nazionali hanno provato quasi subito a reagire a questo quadro politico potenzialmente nuovo. Uno di questi è stato il presidente francese Emmanuel Macron, azionista di maggioranza del gruppo liberale Renew Europe, che ha proposto di inserire il diritto di scelta in materia di aborto come elemento fondamentale della Carta dei Diritti dell’Unione Europea. Anche nell’area socialista è in corso un dibattito critico verso la scelta del sostegno alla Metsola. Bisogna tenere di conto, però, che nelle dinamiche di elezione delle cariche interne al Parlamento Europeo il criterio del continuum destra-sinistra è solo uno dei vari presenti. Sicuramente rimane in campo anche la dicotomia tra pro-integrazione ed euroscetticismo, ma parlando del complesso contesto continentale bisogna tener conto anche degli equilibri tra le nazionalità ed altri elementi sociodemografici. La scelta di una presidente, giovane, donna, proveniente da un Paese del Mediterraneo e dalla ‘nuova Europa’ post grande allargamento del 2004, disegnano un quadro di ‘simpatie’ verso la Metsola che va al di là delle classiche contese destra/sinistra o integrazionisti/antieuropei. Inoltre, il quadro istituzionalmente complesso e sempre in divenire dell’Unione ricorda che il Parlamento Europeo ha necessariamente bisogno di un grado di coesione elevato per essere in grado di contrattare le quote di potere che, al di là della lettera dei trattati europei, spettano al Parlamento stesso, al Consiglio dell’Unione, al Consiglio Europeo, alla Commissione e agli Stati.

Ovviamente le prossime sfide che presto chiameranno il Parlamento a discutere ed eventualmente a decidere su temi quali la gestione dei fondi del recovery fund, crescita delle disuguaglianze, inflazione, proprietà intellettuale dei brevetti sui vaccini, cambiamento climatico e transizione ecologica, ci faranno capire se i nuovi assetti istituzionali e la recente e parziale apertura verso le forza euroscettiche e sovraniste si tradurranno in uno slittamento verso destra anche delle scelte approvate dal Parlamento stesso.

“Altri mondi erano possibili?” Giornata di studio su Genova 2001 – video

Mercoledì 23 giugno 2021 si è tenuta la giornata di studio dal titolo “Altri mondi erano possibili? Genova 2001 nella storia e nelle pratiche dei movimenti” , organizzata dall’OPI e dal Dottorato in Scienze Politiche dell’Università di Pisa, e coordinata dai proff. Massimiliano Andretta (Unipi) e Alessandro Breccia (Unipi). Dopo i contributi del prof. Federico Romero (IUE) e della prof.ssa Donatella della Porta (SNS), sono intervenuti nella seconda sessione  Domenico Chirico, Alberto De Nicola, Paola Imperatore, Walter Massa, Massimo Torelli, Alberto Zoratti.

A questo link è possibile accedere alla registrazione dell’incontro, che ha preso le mosse a partire dal documento di seguito presentato:

 

Temi di discussione collettiva su Genova e dintorni

La tavola rotonda che stiamo organizzando vuole essere una occasione di riflessione intorno ad alcuni nodi legati all’attivismo nei movimenti venuti a galla in occasione della protesta contro il G8 a Genova nel 2001. Abbiamo provato ad organizzare un’occasione di confronto in cui potessero avere voce diverse “anime” e diverse generazioni dell’attivismo senza avere nessuna pretesa di creare un microcosmo rappresentativo e senza chiedere ai partecipanti di parlare a nome di qualche gruppo, movimento, organizzazione, ma soltanto del proprio punto di vista. La discussione si svolgerà sul modello del “focus group”, una sorta di intervista interattiva collettiva dove i partecipanti discutono alcuni o tutti i temi posti al centro della discussione. L’idea è quella di creare in “laboratorio” una sorte di discussione “franca” tra attivisti a beneficio soprattutto dei partecipanti ma anche di chi osserva. Abbiamo pensato di sviluppare la discussione in due fasi. All’inizio verranno posti all’attenzione dei partecipanti una serie di temi che secondo noi vale la pena di affrontare. Precisiamo sin da subito che i partecipanti potranno decidere di trattare solo alcuni di questi temi, al limite anche uno solo, o anche proporre un altro tema ritenuto rilevante e discuterne. Una volta illustrati i temi ci sarà un primo round di interventi da parte dei partecipanti, i quali avranno 5-6 minuti circa per esporre il proprio punto di vista. Alla fine del primo turno (durata circa 50 minuti), si aprirà la discussione al pubblico che potranno fare le loro domande ai partecipanti. Le domande verranno raccolte tutte insieme e riconsegnate ai partecipanti per uno secondo turno di interventi in cui nel rispondere ad alcune delle domande del pubblico potranno riprendere alcune riflessione consegnate dagli altri partecipanti. Anche in questo caso il tempo concesso sarà di 5-6 minuti. Alla fine del secondo turno, cercheremo in una decina di minuti di mettere in luce quelli che ci saranno sembrati i punti di riflessione più interessanti/critici.

La prima questione è il nesso che si sviluppa tra l’attivismo degli anni ’90 e quello espresso a Genova, quali elementi di continuità e quali elementi di rottura/novità, anche rispetto alle identità, ai temi espressi e alle pratiche di militanza.

La seconda questione è sicuramente la legacy, la memoria di Genova, che cosa è rimasto nell’attivismo successivo e nella discussione interna dei movimenti. Evidenziare anche gli aspetti problematici di questa memoria: limiti e opportunità

La terza questione riguarda il “nuovo internazionalismo” dei movimenti, maturato dopo l’Ottantanove e venutosi a manifestare in maniera paradigmatica a Genova. In questo caso ci sembra emergano i nodi delle relazioni tra gli ambiti di attivismo, delle connesse identità e dei livelli (locale/globale) della mobilitazione. In particolare, potrebbe essere utile riflettere sul parallelismo che sta emergendo nell’analisi e nella progettualità di parte dei movimenti tra la situazione determinata dalla crisi pandemica e le grandi mobilitazioni che precedettero Genova (es. campagna contro i brevetti sui farmaci anti-AIDS / campagna No profit on pandemic, ecc.)

La quarta è la questione della democrazia. Da una parte il nodo della riforma o della creazione ex novo di istituzioni a livello internazionale capaci di interagire con i livelli decisionali domestici e locali in connessione con i processi partecipativi. Dall’altra la riflessione sulle forme di democrazia interna ai movimenti culminata nei Forum Sociali (di tutti i livelli) che superassero i limiti della delega ma anche quelli dell’assemblearismo. Fino a che punto questa riflessione è ancora dentro i movimenti di oggi e di nuovo qual è stato in positivo e in negativo il contributo di Genova su questo.

La quinta ed ultima questione, riguarda l’attivismo radicale: in che modo è possibile, se lo si ritiene necessario, esprimerlo nell’attuale quadro politico?

“Altri mondi erano possibili?” Giornata di studio su Genova 2001

Come si arrivati a, cosa è stato, cosa ha rappresentato e cosa ci ha lasciato il movimento che nel 2001 portò a GENOVA migliaia di giovani a protestare contro “i grandi del pianeta”? A venti anni di distanza ne parliamo con Federico Romero e Donatella della Porta prima e con gli attivisti di ieri e quelli di oggi dopo.

La giornata di studio online dal titolo “Altri mondi erano possibili? Genova 2001 nella storia e nelle pratiche dei movimenti” si terrà il giorno 23 giugno 2021 dalle ore 10 alle ore 17.

Per partecipare clicca qui (Piattaforma MS Teams)

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L’incontro al vertice tra Unione Europea e Turchia: una prospettiva diversa del ‘sofagate’

L’incontro al vertice tra Unione Europea e Turchia: una prospettiva diversa del ‘sofagate’

di Enrico Calossi (OPI – docente di Relazioni Internazionali – Studi Europei)

Dell’incontro tra i vertici europei e i vertici turchi se ne è parlato molto, basandoci sulla foto numero 1. Ma cosa sarebbe successo se fosse stata pubblicata la foto numero 2, cioè la versione originale?

Ricapitoliamo i punti salienti del dibattito di questi giorni

Martedì 6 aprile il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen hanno incontrato il presidente turco Recep Tayyp Erdogan e… il ministro degli esteri Mevlüt Çavuşoğlu, che, come notiamo, non appare nella foto numero 1, quella pubblicata da larga parte della stampa. In questi giorni la foto tagliata e senza Çavuşoğlu ha suscitato un notevole dibattito sulla stampa italiana, in particolare, e in quella europea, in generale. Numerose sono state le reazioni che hanno legato la disposizione dei tre interlocutori alle recenti scelte di Ankara di uscire dalla convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta alla violenza sulle donne. Il dibattito si è spontaneamente allargato per criticare le posizioni del partito presidenziale AKP, che sul tema della condizione della donna in Turchia ha impresso una svolta in senso tradizionale/conservatrice. In alcuni paesi Europei le reazioni sono state più forti. Sicuramente in Belgio, patria del presidente del Consiglio Europeo Michel, per essere sembrato impacciato e insicuro nel prendere le difese della sua collega Von der Leyen. In Italia le critiche sono arrivate da tutto lo schieramento politico: sia da destra, che una volta di più ha voluto criticare la possibilità dell’ingresso della Turchia nell’Unione, sia dal centrosinistra, che ha prontamente e largamente sostenuto i diritti della Von der Leyen sia anche dalla sinistra non liberale che ha criticato non tanto la disposizione dei leader nella sala quanto piuttosto l’opportunità stessa di trattare con un leader ritenuto ai margini della legittimità democratica. Ma l’impatto maggiore, in Italia, si è avuto per la reazione che ha avuto il Presidente del Consiglio Mario Draghi ad una domanda ricevuta durante la conferenza stampa di giovedì 8 aprile: “Mi dispiace per l’umiliazione che la presidente Von Der Leyen ha dovuto subire […] Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, devi essere franco nell’esprimere la diversità di visione”. Ma è veramente questo la regione che sta alla base della reazione di Ursula von der Leyen?

La situazione in Turchia

Ovviamente con queste righe non voglio assolutamente minimizzare la portata e gli effetti che questa recente fase della presidenza Erdogan su tanti diritti che sembravano acquisti anche in Turchia. Voglio sicuramente ricordare i licenziamenti di decine di migliaia di dipendenti pubblici a seguito del colpo di stato del luglio 2016 (molti dei licenziati sono accademici e dipendenti delle università) e neanche voglio minimizzare la svolta in senso tradizionalista per quando riguarda i diritti delle donne nel paese anatolico. Così come desta preoccupazione l’assertività turca nella Siria del Nord e nelle zone, anche all’interno dello stato turco, abitate dalla minoranza (ma là maggioranza) curda. A questo si accompagnano anche i tentativi di mettere fuori legge il partito democratico socialista HDP, in larga parte espressione della minoranza curda. Ma sono state spese parole su questi aspetti durante l’incontro nel vertice euro-turco? Non mi pare. Ci si è concentrati in realtà su altri temi, sicuramente importanti, come il ruolo della Turchia nella gestione dei migranti (che in larga parte fuggono proprio dalla Siria per dirigersi in Europa), le potenzialità in campo energetico (la Turchia rappresenta un ponte naturale e essenziale tra l’Europa e il Medio-Oriente e il Caucaso, ricchi di risorse energetiche), e sicuramente si è discusso anche delle tensioni che da anni caratterizzano i rapporti tra Turchia, da un lato, e due membri dell’Unione (Grecia e Cipro), dall’altro.

Cambiamo il punto di vista, verso Bruxelles

Dunque, provando a spostare il punto di vista su ciò che conosco meglio, cioè i rapporti intra-europei, mi preme segnalare che la maggioranza dei temi discussi nell’incentro al vertice hanno a che fare con la sicurezza dell’Unione Europea. E qui sorge la difficoltà. Forse si stava parlando di accordi commerciali tra Turchia e Unione Europea? Forse si è parlato dei vari capitoli ancora aperti nelle trattative per l’adesione (sì, perché la Turchia è ancora un paese candidato, anche se oramai non sembra più interessare a nessuno) all’Unione? Non mi sembra. Eppure quest’ultimi temi sarebbero di diretta responsabilità della Commissione. Mentre sicurezza, gestione dei migranti, anche ruolo in Siria, sono tutti aspetti della Politica Europea di Sicurezza Comune (PESC) che spettano al Consiglio Europeo (e al Consiglio dell’Unione Europea). In questo sta la particolarità dell’esecutivo bicefalo dell’Unione: in politica estera gli aspetti soft spettano alla Commissione, l’hard power al Consiglio Europeo. Quindi, in quell’incontro, Michel, era chiaramente il capo-delegazione dell’Unione, così come Erdogan era il capo della delegazione turca. Secondo il protocollo, tra l’altro concordato anche tra gli sherpa UE e quelli turchi, il ministro degli esteri turco e il presidente della Commissione avevano un ruolo laterale. Ed è ciò che è stato plasticamente rappresentato dal sofà.  Da questa prospettiva, dunque la reazione della Von der Leyen sembra più da interpretarsi come una critica della Commissione verso il Consiglio Europeo, che, ricordiamolo, rappresenta gli interessi dei governi nazionali dell’Unione. Quindi, ancora una volta, una querelle tutta interna allo scontro “più sovranismo” vs “più intergovernativismo”, oppure “più Europa” o “più Stati membri”? Ovviamente, la Von der Leyen, da politica esperta e di lungo corso, usa le armi che sono a disposizione. Il movimento internazionale che chiede più diritti alla donne è pienamente in campo, e Erdogan ne rappresenta sicuramente un avversario: perché non sfruttare quella carta? Ma sono molto più convinto che l’obiettivo fosse tutto interno a Bruxelles, non tanto Ankara. Chi avrò domani l’ardire di mettere il presidente della Commissione in un angolo, quando si parlerà di sicurezza con gli Stati Uniti, la Russia o la Cina? Del resto la storia dell’evoluzione dei rapporti tra le istituzioni europee è proprio questo: un alternarsi di avanzamenti (o passi indietro) sanciti dai trattati o conquistati direttamente sul campo. Così come, giova ricordarlo, la presidenza del Consiglio Europeo ha conquistato molte posizioni proprio sotto la gestione dell’ex presidente Donald Tusk, scioccamente a volte visto che interesse e apprezzamento da alcuni federalisti, che forse erano più innamorati dell’aplomb del leader e non hanno visto quanto in realtà stesse minando ai fianchi gli spazi di agibilità della Commissione.

Rimarranno ruggini tra Turchia e Europa, tra Turchia e Italia?

Who knows? Ma proviamo a fare previsioni. Ovviamente Ankara non ha preso bene le reazioni (largamente presenti sulla stampa piuttosto che nei canali ufficiali) provenienti dal campo europeo. Soprattutto non è stata apprezzata la posizione italiana, forse per le scintille che sono in campo da tempo sul futuro della Libia (e non scordiamoci che 110 anni tra regno d’Italia e impero ottomano ci fu una guerra per quella che allora fu definita come una “scatola di sabbia”), ma anche per la dichiarazione a sorpresa del premier Mario Draghi. La reazione in quel caso non si è fatto attendere ed era quasi scontata. Nonostante la frattura sembra si sia rapidamente ricomposta, la diplomazia turca non poteva di certo perdere l’occasione di mentovare le vittorie elettorali del leader dell’AKP. Lo stesso ministro Çavuşoğlu ha prontamente dichiarato che Draghi ha “superato il limite con affermazioni populiste, oltre tutto da un presidente non eletto, a differenza di Erdogan eletto dal popolo”. E in effetti voglio spendere due parole sulla dichiarazione rilasciata en-passant da Draghi durante una conferenza stampa che, tra l’altro, si concentrava su altri aspetti. Alcuni hanno parlato subito di inesperienza di Draghi in ambito diplomatico. E se per quanto l’ex-presidente della BCE sia stato sicuramente abituato a pesare le parole prima di pronunciarle (con il solo “whatever it takes” fu in grado di riaccendere la ripresa dei mercati nel 2012), può sicuramente essere che le conferenze da Presidente del Consiglio siano più difficili da gestire, perché si spazia tra temi sicuramente eterogenei tra loro. Oppure, si potrebbe ipotizzare anche un’altra interpretazione. Non sarebbe una novità quella di vedere capi di governo in difficoltà in patria (come lo è chiaramente il governo Draghi in questa difficile fase di lotta alla pandemia e di campagna vaccinale in ritardo) provare ad esportare l’attenzione dell’opinione pubblica verso l’estero. Senza scomodare esempi classici, come Giulio Cesare o il borbonico francese Carlo X, è ormai appurato in letteratura che uno scontro in campo internazionale può favorire un meccanismo di “rallying around the flag”. Ed è lecito pensare che un mercato politico come quello italiano, nel quale le fortune politiche e le lune di miele tra leader ed opinione pubblica cambiano rapidissimamente, anche la scelta di cercare volutamente lo scontro con l’esterno non è da scartare a priori. Ovviamente lascio al lettore la scelta di quale ipotesi sia da considerarsi come la più probabile.

Per il «bene del paese»?

La rivista Jacobin Italia ha recentemente ospitato un articolo sulla formazione del nuovo governo italiano a cura di Paola Imperatore (OPI) dal titolo “Per il «bene del paese»?” .  

L’articolo è gratuitamente disponibile a questo link.