Video “La guerra in Ucraina e l’ordine internazionale: niente sarà più come prima?”

Video del seminario dal titolo La guerra in Ucraina e l’ordine internazionale: niente sarà più come prima?”, svoltosi Venerdì 18 marzo,  dalle 9.00 alle 13.00, presso il polo didattico le Piagge in formula blended, e organizzato dal Dipartimento di Scienze politiche e l’Osservatorio per la Politica e le Istituzioni.

Il seminario ha avuto una partecipazione straordinaria, con circa 70 presenze in aula e un picco di 280 presenze online.

Da una parte si è cercato di contestualizzare storicamente il drammatico conflitto ricostruendo la storia delle relazioni tra Russia e Ucraina, USA e Unione Europea. Dall’altra, di riflettere sulle implicazioni di tale conflitto per il sistema di relazioni internazionali, il diritto internazionale, l’Unione Europea e i paesi della regione del MENA.

La lista degli interventi, che potrete rivedere nel video, sono i seguenti

Carmelo Calabrò
Saluti istituzionali

Massimiliano Andretta
Introduzione alla giornata

Il contesto storico-politico

Elena Dundovich
Oriente vicino o estremo Occidente? L’Ucraina contemporanea, dall’URSS alla NATO

Andrea Giannotti
La statualità ucraina e il mondo russo. Gli slavi orientali dalla Rus’ di Kiev al XX Congresso

Marinella Neri
La fine della guerra fredda: un’occasione persa per coinvolgere la Russia nel nuovo sistema di sicurezza europeo?

Simone Paoli
Stati Uniti, Unione Europea e Federazione Russa: un tentativo di periodizzazione storica

Interventi e domande dal pubblico

Implicazioni ed effetti

Sara Poli
L’Unione europea di fronte ala guerra tra l’Ucraina e la Russia

Marcello Di Filippo
L’invasione russa dell’Ucraina: crisi o opportunità per il diritto internazionale?

Francesco Tamburini
Ripercussioni della crisi Ucraina sulla regione del MENA

Enrico Calosi
La crisi in Ucraina alla luce delle teorie delle relazioni internazionali

Interventi e domande dal pubblico

L’elezione di Metsola alla presidenza del Parlamento Europeo e i nuovi equilibri tra i partiti politici europei

di Enrico Calossi, OPPR

L’elezione di Roberta Metsola ha rappresentato un cambiamento del quadro politico rispetto al contesto che due anni e mezzo fa consentì l’elezione del recentemente scomparso David Sassoli. Apparentemente non sembra ci siano novità, perché ormai dagli anni ottanta il parlamento europeo è guidato da una presidenza popolare, per una metà della legislatura, e da una presidenza socialista, per l’altra metà. O viceversa. E anche questa volta la prassi della Grand Coalition (o Grosse Koalition, se si vuol dar credito ad una crescente germanizzazione dell’Unione) tra Popolari, Socialisti e Liberali appare confermata. Solo nella legislatura 1999-2004 il patto tra Popolari e Socialisti non fu rinnovato perché i Popolari preferirono accordarsi con i Liberali. Infatti, nella prima parte della legislatura, la presidenza spettò alla popolare Nicole Fontaine, nella seconda parte, al liberale Pat Cox.

Le prime difficoltà nel ‘core’ dei partiti europei e l’elezione di Sassoli

Nel 2014, all’inizio della nuova legislatura, il socialista Martin Schulz fu eletto presidente del Parlamento con una confortevole maggioranza che rifletteva l’accordo tra Popolari, Socialisti e Liberali. Nel gennaio del 2017 però il consueto passaggio di testimone tra Popolari e Socialisti non avvenne in modo indolore. Infatti, in quell’occasione ci furono sei candidati: di fatto ogni gruppo, tranne i Liberali, presentò un proprio candidato. Le regole del PE, poi, impongono alla quarta votazione la limitazione delle candidature ai due più votati nella terza votazione. Così il popolare Antonio Tajani poté battere il socialista Gianni Pittella. Chiaramente il sistema di partito era di fronte ad una rottura, mascherata però dal fatto che l’alternanza tra Socialisti e Popolari si era comunque realizzata.

Nel 2019, la tradizionale alleanza sembrava poter essere rinnovata. Infatti, David Sassoli fu esplicitamente designato in seguito al tipico accordo tra Popolari, Socialisti, e Liberali, definito spesso nella letteratura specialistica come ‘core’ del sistema partitico a livello europeo. Però, i risultati furono diverso. Infatti, Sassoli, nonostante avesse sulla carta il sostegno di 444 deputati, ricevette al primo turno solo 325 voti, sotto la soglia dunque dei 332 voti necessari per essere eletto. Agli altri candidati, il conservatore di ECR Jan Zaharadil, alla verde Ska Keller e alla candidata della sinistra del gruppo Gue-Ngl, Sira Rego, andarono rispettivamente 162, 133 e 42 voti. La candidata verde ottenne dunque 59 voti in più rispetto a quanti fossero i membri del gruppo Verde/Regionalista (74 deputati) e il conservatore ottenne, addirittura, ben cento voti in più rispetto all’entità del gruppo di riferimento (i Conservatori e Riformatori Europei / ECR) che constava di 62 seggi.

 

Tabella 1: La composizione dei gruppi politici al Parlamento Europeo, 2019 e 2022

Famiglia Politica Nome gruppo Acronimo Seggi 2019

Pre-Brexit

Seggi 2022

Post-Brexit

Popolari Gruppo del Partito Popolare Europeo EPP 182 177
Socialisti Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici in Europa S&D 154 144
Liberali Renew Europe RE 108 101
Verdi e regionalisti Verdi e Alleanza Libera Europea G-EFA 74 72
Destra Sovranista Identità e Democrazia ID 73 70
Conservatori Conservatori e Riformatori europei ECR 62 64
Sinistra The Left GUE-NGL 41 39
Non iscritti Non iscritti NI 57 39

 

Servì dunque un secondo turno di votazione. Questa volta Sassoli riuscì a migliorare il proprio risultato, passando a 345 voti (cioè 11 più del necessario), ma ancora ottenendo molto meno dei 444 voti a disposizione dei gruppi popolare, socialista e liberale. E pertanto, il 3 luglio 2019, Sassoli divenne presidente del parlamento europeo, anche se il risultato rappresentava un chiaro segnale del peggioramento dei rapporti tra i tre gruppi.

Per quanto riguarda le 14 Vicepresidenze del Parlamento Europeo, quattro andarono ai Popolari, tre ai Socialisti, due rispettivamente ai Verdi e ai Liberali e uno rispettivamente alla Sinistra e ai non iscritti (in particolare al Movimento 5 Stelle).

I gruppi parlamentari e la scelta delle cariche monocratiche dell’Unione

Le difficoltà nei rapporti tra i gruppi del ‘core’ riemersero pochi giorni dopo quando, il 16 luglio 2019, la proposta del Consiglio Europeo di eleggere Ursula Von Der Leyen alla Presidenza della Commissione fu approvata dal Parlamento Europeo. Anche questa volta, la Von Der Leyen avrebbe potuto attendersi i 444 voti a disposizione di Popolari, Socialisti e Liberal. In realtà i voti a favore furono solo 383, cioè appena nove sopra il quorum di 374 voti, nonostante anche la nutrita pattuglia parlamentare del Movimento 5 Stelle (nel gruppo dei Non Iscritti) avesse dichiarato di votare a favore della Von Der Leyen. Questo fatto fu particolarmente interessante per gli osservatori italiani, che infatti coniare “maggioranza Ursula” lo schema a sostegno della Von Der Leyen, anche per sottolineare lo spostamento del M5S su posizioni filo-europeisti. Comunque, anche in questa occasione, seppure non al livello di quanto successo quindici giorni prima per Sassoli, i tre partiti non riuscirono a assicurarsi tutti i voti a disposizione.

Nell’autunno del 2019 continuò la designazione delle posizioni monocratiche del sistema politico europeo. La scelta dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera confermò, con la designazione dello spagnolo Josep Borrell, il tradizionale predominio su questa figura a vantaggio dei socialisti (gli alti rappresentanti precedenti, Solana, Ashton e Mogherini, erano tutti socialisti). Però la scelta di un liberale, il belga Charles Michel, alla carica di Presidente del Consiglio Europeo, fece ipotizzare la nascita di una saldatura tra Liberali e Popolari più solida rispetto a quella ormai quarantennale tra Popolari e Socialisti.

Così si alimentarono rumors di una probabile rottura del patto tra socialisti e popolari, fino al punto che, nell’autunno del 2021, sembrava ormai molto probabile una ricandidatura di David Sassoli alla presidenza. Tra le varie ragioni, oltre alla cristallizzazione delle difficoltà tra socialisti e popolari, figurava anche l’aver speso gran parte dell’ultima semi-legislatura nel concentrare l’impegno della presidenza quasi unicamente a garanzia dell’agibilità fisica e politica del parlamento in tempi di Covid Questo aveva spinto Sassoli e i socialisti a tentare la strada della nuova candidatura. In effetti, sulla carta, se Sassoli fosse stato in grado di intercettare non solo gli scontati voti dei Socialisti e della nutrita pattuglia del M5S, ma anche buona parte dei voti dei Verdi, della Sinistra e soprattutto dei Liberali, sarebbe riuscito nell’impresa della rielezione. Anche perché, dall’altro lato, i Popolari non avrebbero potuto ampliare molto la propria base elettorale, temendo di doversi alleare solo con gli euroscettici sovranisti dei gruppi ID e ECR.

A metà dicembre, però, anche per il peggioramento delle sue condizioni di salute, Sassoli dichiarò ufficialmente di ritirare la sua candidatura, con l’obiettivo di “non spaccare” la “maggioranza Ursula”, cioè, per l’appunto, l’alleanza tra Popolari, Socialisti, Liberali e Pentastellati. La strada appariva dunque spianata per una candidatura dei Popolari, i quali già a novembre 2021 avevano rotto gli indugi e avevano proposto la giovane maltese Roberta Metsola alla presidenza.

Roberta Metsola ottiene voti anche dalla destra euroscettica e sovranista

A inizio gennaio si stava quindi prospettando lo stesso schema del 2019, in base al quale Metsola era la candidata del ‘core’ rappresentato da Popolari, Socialisti e Liberali. E ancora come nel 2019, Verdi, Sinistra e Conservatori avrebbero tutti presentato un proprio nome di bandiera. Probabilmente, a seguito di questo schema, i Socialisti sarebbero stati anche pronti a non votare (ricordo che il voto è segreto) in massa per la Metsola. Sia per rendere pan per focaccia per lo sgarbo incassato nel luglio 2019 da Sassoli (i 100 voti in meno), ma anche perché le posizioni chiaramente anti-abortiste della politica maltese mal collimano con gli ideali politici dei socialisti europei.

Ma il fatto nuovo, che ha scardinato gli schemi, è stato l’inaspettato ritiro del candidato conservatore e l’esplicita presa di posizione di alcuni euroscettici di destra, sia tra i conservatori più ‘soft’ di ECR, guidati da Giorgia Meloni, sia tra quelli più ‘hard’ di Identità e Democrazia (ID), a favore della Metsola, come ad esempio ha fatto esplicitamente Matteo Salvini. Il risultato infatti è stato superiore a quanto ragionevolmente la Metsola poteva aspettarsi: di fronte ad una platea potenziale di 422 voti provenienti dai tre partiti ‘core’, la giovane neo-presidente ha ottenuto 458 voti, quindi 36 più del previsto. Ciò dimostra che è stata in grado di pescare anche nell’elettorato euroscettico e conservatore. Probabilmente l’apporto del voto conservatore è stato anche maggiore dei 36 voti in più. Infatti, visto che le altre due candidate alternative, la verde Kuhnke e ancora Rego della Sinistra hanno ottenuto 47 voti in più rispetto ai loro rispettivi 72 e 39 voti previsti, è molto probabile che i voti in più ottenuti dalle due candidate provengano da deputati socialisti o liberali. Dunque questi 47 voti sarebbero dovuti a mancare alla Metsola. Ma sarebbero stati ampiamente bilanciati dall’arrivo di voti euro-scettici e conservatori. Dunque, se in più occasioni in passato si era ventilata la possibilità di un allargamento del ‘core’ dei gruppi del PE verso l’area ambientalista e verde, questa volta l’allargamento è stato a destra. Resta da capire quanto ciò sia episodico o quanto possa avere conseguenze più durature.

Un altro segnale da cogliere arriva dall’elezione dei nuovi vicepresidenti del Parlamento. Ovviamente si inverte il rapporto di forza tra Popolari e Socialisti, perché chi detiene la presidenza ottiene, come bilanciamento, meno vice-presidenti. Quindi da gennaio 2022 i Socialisti hanno cinque vicepresidenti, mentre i Popolari ne hanno tre. Si rafforzano però i Liberali, passando da due a tre e i conservatori di ECR eleggono un primo vicepresidente, che non avevano nel 2019. In compenso, mentre la Sinistra continua ad eleggere un suo vicepresidente, i Verdi passano da due a uno e i non-iscritti (in particolare il Movimento 5 Stelle) perde il suo unico vicepresidente. Una dinamica quindi che sembra confermare uno slittamento verso destra degli equilibri interni al Parlamento europeo.

Le prospettive future

Alcuni leader nazionali hanno provato quasi subito a reagire a questo quadro politico potenzialmente nuovo. Uno di questi è stato il presidente francese Emmanuel Macron, azionista di maggioranza del gruppo liberale Renew Europe, che ha proposto di inserire il diritto di scelta in materia di aborto come elemento fondamentale della Carta dei Diritti dell’Unione Europea. Anche nell’area socialista è in corso un dibattito critico verso la scelta del sostegno alla Metsola. Bisogna tenere di conto, però, che nelle dinamiche di elezione delle cariche interne al Parlamento Europeo il criterio del continuum destra-sinistra è solo uno dei vari presenti. Sicuramente rimane in campo anche la dicotomia tra pro-integrazione ed euroscetticismo, ma parlando del complesso contesto continentale bisogna tener conto anche degli equilibri tra le nazionalità ed altri elementi sociodemografici. La scelta di una presidente, giovane, donna, proveniente da un Paese del Mediterraneo e dalla ‘nuova Europa’ post grande allargamento del 2004, disegnano un quadro di ‘simpatie’ verso la Metsola che va al di là delle classiche contese destra/sinistra o integrazionisti/antieuropei. Inoltre, il quadro istituzionalmente complesso e sempre in divenire dell’Unione ricorda che il Parlamento Europeo ha necessariamente bisogno di un grado di coesione elevato per essere in grado di contrattare le quote di potere che, al di là della lettera dei trattati europei, spettano al Parlamento stesso, al Consiglio dell’Unione, al Consiglio Europeo, alla Commissione e agli Stati.

Ovviamente le prossime sfide che presto chiameranno il Parlamento a discutere ed eventualmente a decidere su temi quali la gestione dei fondi del recovery fund, crescita delle disuguaglianze, inflazione, proprietà intellettuale dei brevetti sui vaccini, cambiamento climatico e transizione ecologica, ci faranno capire se i nuovi assetti istituzionali e la recente e parziale apertura verso le forza euroscettiche e sovraniste si tradurranno in uno slittamento verso destra anche delle scelte approvate dal Parlamento stesso.

Leggere Pareto in lockdown. Il più scomodo fra i classici delle scienze sociali e i dilemmi politici della pandemia.

di Marco Di Giulio

Un po’ per lavoro, un po’ per diletto e forse con qualche dose di masochismo, in questo anno passato prevalentemente a casa, ho speso molte ore su alcuni fra i principali scritti di Vilfredo Pareto. Il costante contrasto con le notizie che riguardavano la pandemia, la sua gestione, i conflitti che ne sono sorti, mi ha portato involontariamente a leggere alcuni i temi del dibattito politico attraverso il suo sguardo sociologico. Nelle righe che seguono mi concentro su degli aspetti del pensiero di Pareto che, benché noti agli specialisti, dimostrano quanto fra i classici delle scienze sociali Pareto sia per certi versi quello invecchiato meglio. Perché, credo, riuscì a cogliere tra XIX e XX secolo alcuni meccanismi di funzionamento delle società contemporanee che si sarebbero completamente dispiegati solo nei decenni successivi e sono dominanti nel contesto attuale; elementi che l’emergenza Covid-19 ha portato all’estremo, rendendoli oggetto di discussione pubblica. Ne ho distinti due, benché intimamente collegati: 1) Il problema dell’efficacia delle politiche pubbliche e della sua valutazione 2) il rapporto fra conoscenza e politica.

 

L’efficacia come problema

Pareto è universalmente noto, come economista, per aver definito il concetto di efficienza. Il suo contributo, tuttavia, si è spinto oltre. Fra i classici delle scienze sociali suoi contemporanei, Pareto è stato il primo ad intuire come l’esito delle attività dei governi non fosse qualcosa i cui effetti intenzionali potessero darsi per scontati, mentre quelli non-intenzionali possono superare i primi per importanza. Le elites politiche sono felicissime di farsi carico di domande provenienti dalla società, le inseriscono all’interno di cornici ideologiche e programmatiche ed alla fine vengono trasformate in interventi che si spera daranno una risposta efficace. Curiosamente, in un momento di estrema espansione delle attività degli Stati e di fiducia nel progresso, Pareto immaginò la strutturale incapacità dei governi nel tentativo di raggiungere i loro obiettivi di policy. L’efficacia dell’azione di governo è tutt’altro che scontata e in più, anche quando sembra esserci, è difficile da riconoscere e valutare. Le scienze sociali dal secondo dopoguerra sino ai giorni nostri non hanno fatto che certificare quanto l’ingegneria politico-amministrativa sia fallace. Pareto non solo pose il problema, ma ne colse dei meccanismi basilari e sottili.

 

Efficacia vs. Efficienza

Molto spesso nel discorso pubblico e finanche nelle chiacchiere da bar i concetti di efficacia ed efficienza vengono pronunciati in serie, quasi fossero sinonimi. L’azione dell’organizzazione di cui facciamo parte, le politiche del governo del nostro paese sono sempre descritte come “efficaci ed efficienti”. Tuttavia, ci sono dei contesti in cui questo non è possibile e fra efficacia ed efficienza bisogna scegliere. In particolare, in settori dove la sicurezza o la salute sono obiettivi primari, perseguire in maniera ossessiva l’efficienza (spesso la mera economicità, spacciata per efficienza, vedi: “i tagli lineari” alla spesa) può contribuire a istituzionalizzare politiche arroganti, che si rivelano fragili al verificarsi di eventi imprevisti. La gestione di una pandemia è un caso tipico in cui per essere minimamente efficaci occorre sacrificare molta efficienza. In un’analisi pubblicata da the Atlantic, Zeynep Tufekci ha citato esplicitamente il “principio di Pareto” o “principio della scarsità dei fattori” per sottolineare come fenomeni sociali complessi siano spesso causati da “piccole cause”. Il riferimento è all’importanza dei superspreader e dei cluster come principali fattori alla base della diffusione di una pandemia. Quando siamo di fronte a problemi che presentano queste caratteristiche, efficacia ed efficienza divergono necessariamente: il caso delle misure di contenimento del contagio rappresenta un esempio lampante in questo senso. L’obbligo di indossare la mascherina all’aperto o la chiusura degli impianti sciistici sono chiaramente degli interventi sub-ottimali da un punto di vista dell’efficienza media generale, perché impongono dei costi – economici e non – indifferenziati per ridurre al minimo la probabilità, già di per sé bassa, che poche singole persone creino dei focolai di grandi dimensioni. Il successo di policy è in casi come questi definito dalla capacità di impedire degli eventi discreti, rari, difficili da controllare puntualmente. La ridondanza delle misure richieste è in contraddizione con il principio di efficienza attraverso cui, invece, valutiamo la gran parte delle politiche siano pubbliche o di enti privati. L’efficacia di una politica pubblica, intuì Pareto oltre cento anni fa, non dipende mai da politiche che hanno dato prova di funzionare mediamente. In questo senso, nessuna task force di esperti è garanzia di successo. Ricorre più volte l’idea, nel Trattato di sociologia generale, che anche il più illuminato dei sovrani insieme ai più capaci dei suoi burocrati possano benissimo produrre dei fiaschi, così come dei governanti mediocri possano rocambolescamente avere successo. Il fatto che nel contesto europeo paesi a cui siamo soliti riconoscere un’elevata capacità amministrativa abbiano clamorosamente commesso gravi errori nella gestione del contagio sembra confermare questa intuizione.

 

L’efficacia fra realtà e superstizione

Per Pareto il successo di una politica è piuttosto contenuto nella capacità di assecondare dei meccanismi sociali esistenti, andando incontro alle inclinazioni di chi l’intervento governativo lo riceve o ne è in qualche modo toccato. La bravura del policymaker –  ammesso che sia interessato all’obiettivo dichiarato e non si limiti meramente a perseguire dei secondi fini – starebbe nel disegnare gli interventi su misura, facendo sì che gli interessi e le mentalità esistenti nel contesto specifico ne rafforzino l’efficacia, anziché sabotarla. Tuttavia, spesso il successo è figlio di fattori totalmente estranei al modo in cui le politiche sono disegnate e non c’è merito alcuno nei governanti. Il protezionismo tedesco, ripeteva Pareto correggendo i suoi primi scritti economici, è un caso di successo non per la bontà delle politiche economiche e industriali implementate, ma perché l’assetto istituzionale e politico della Germania, per ragioni del tutto casuali, era favorevole agli esiti attesi.  Inoltre, Pareto ci suggerisce che in moltissimi casi – certamente nei più rilevanti – non siamo in grado di misurare quanto determinati fenomeni sociali siano l’effetto di interventi di policy che intenzionalmente pretendono di esserne la causa e quanto invece le cose sarebbero comunque andate allo stesso modo anche senza alcuna politica. È plausibile che la verità sia da qualche parte nel mezzo, ma questo, per Pareto, non sposta i termini del problema e soprattutto le sue conseguenze politiche. L’ambiguità è una condizione che struttura i conflitti politici perché questi non riproducono meccanicamente gli interessi in gioco, ma sono veicolati dalla capacità argomentare, persuadere e manipolare. Le politiche in qualche modo collegate alla pandemia, il loro stratificarsi nel tempo, la diversa natura degli obiettivi (si pensi al cashback in relazione alla necessità di evitare assembramenti), la sistematica incapacità di monitoraggio del fenomeno ci hanno dato prova di come l’ambiguità, più o meno cercata, abbia prodotto nei mesi un costante “logomachia” di interpretazioni contrastanti su cui gli attori politici si sono misurati, talvolta acquisendo influenza o consenso, talvolta rinculando.

 

Scienza e politica

Non esiste né può esistere un governo della scienza. Con questa convinzione Pareto consumò la sua rottura con la tradizione positivista, procurandosi, nell’interpretazione di Raymond Aron, anche il futuro disprezzo del mondo intellettuale. L’anti-intellettualismo di Pareto ha tuttavia dimostrato di avere solide basi analitiche. Infatti, il sociologo intuì, anche in questo caso in anticipo sui tempi, che la conoscenza scientifica è un processo sociale ed in quanto tale condizionato, nel bene e nel male, da fattori umani, organizzativi, politici e ideologici. Sono numerosi i passaggi in cui l’autore si è sardonicamente preso gioco sia degli scientisti così come di coloro che oggi chiameremmo negazionisti, o di entrambi simultaneamente. In una nota a piè di pagina del suo Trattato (§2154f), Pareto prende spunto da manifestazioni avvenute in Svizzera nel 1913 contro le prime campagne vaccinali per mettere in luce i dilemmi dell’uso politico della scienza. L’emergente dibattito sulla vaccinazione obbligatoria gli sembrò immediatamente un nervo scoperto delle democrazie perché – osservava – “sebbene coloro che si oppongono alle vaccinazioni abbiano probabilmente torto”, la saldatura fra scienza ufficiale e potere coercitivo dello Stato appariva come un fenomeno potenzialmente pericoloso per la libertà di espressione e, quindi, per la scienza stessa.

 

Lo “scientismo” è una narrazione che fa bene alla scienza?

Pareto avrebbe lanciato invettive anche di fronte all’attuale dibattito pubblico sul rapporto fra scienza e politica. In particolare, immagino che avrebbe smascherato due opposte retoriche che campeggiano sulle principali testate di informazione. Da una parte quella della fiducia incondizionata nella “Scienza”, dall’altra quella del suo rifiuto su basi superstiziose o di mero interesse. Avrebbe attaccato principalmente la prima, per il semplice gusto di pensare contro la maggior parte degli intellettuali progressisti (oggi diremmo liberal) e perché avrebbe trovato il fronte negazionista non intellettualmente stimolante. Di certo avrebbe notato come slogan del tipo “la scienza ci salverà” siano intrinsecamente ideologici, perché la scienza, come “la democrazia, il socialismo, il cristianesimo” – suoi idoli polemici preferiti – non sono altro che delle astrazioni. Evidenzierebbe come i continui conflitti fra esperti non siano solo, né principalmente, il riflesso di un difetto di comunicazione pubblica di persone che fanno un altro mestiere. Al contrario riconoscerebbe conflitti fra professionisti e alti funzionari delle amministrazioni sanitarie che hanno per oggetto il controllo di risorse strategiche, la difesa del prestigio legato alla propria specifica specializzazione, da cui scaturiscono. Elementi da cui scaturiscono definizioni diverse del problema e di come affrontarlo e che non sono compatibili con un’idea irenica della “Scienza”. Piuttosto, Pareto si chiederebbe se questa narrazione della scienza sia più o meno utile per la collettività o sia soltanto funzionale alla legittimazione della classe politica di turno. Ma forse sarebbe una domanda retorica.

Marco Di Giulio è Ricercatore in Scienza Politica presso l’Università di Genova, dove insegna Scienza dell’amministrazione e Valutazione delle politiche pubbliche