Le reazioni dei partiti italiani alle elezioni federali tedesche del 2025

 

Rapporti tra partiti fratelli “Sister parties”

Da sempre i partiti politici intrattengono relazioni internazionali con partiti di altri Paesi. Questo serve per scambiare opinioni ed esperienze, coordinare le proprie attività istituzionali, formare i propri quadri, condurre campagne transnazionali, etc. A maggior ragione la cooperazione avviene tra i partiti della stessa famiglia politica e all’interno del pervasivo ambiente istituzionale rappresentato dall’Unione Europea. Dunque, per i partiti della Paesi della UE, questi rapporti con i “partiti fratelli” (“sister parties” in inglese) possono avvenire sia nell’ambito delle Internazionali mondiali (ad es. l’Internazionale Socialista, l’Internazionale Democratica Centrista, l’Internazionale Liberale, etc.) ma anche all’interno degli attori finanziati dall’Unione Europea: cioè all’interno dei partiti politici europei o nei gruppi politici del Parlamento Europeo (PE). Su quale dei due ambiti sia il più utile è il più proficuo esiste un dibattito tutt’ora in corso, ma appare evidente che i gruppi parlamentari del PE, avendo più risorse e legittimità, siano considerati dai partiti nazionali il terreno più ambito nel quale cooperare. Infine, i partiti possono cooperare nel mondo più classico, cioè direttamente, tramite la cooperazione bilaterale transnazionale. Questo commento si concentra su come i rapporti bilaterali tra i partiti italiani e quelli tedeschi abbiano prodotto reazioni diverse in seguito alle elezioni federali tedesche che si sono tenute domenica 23 febbraio 2025.

I risultati elettorali e il nuovo Bundestag

Il primo dato da segnalare è la crescita della partecipazione elettorale dei cittadini. Dei 60 milioni di aventi diritto l’82,5% si sono recati alle urne, che rappresenta la partecipazione più alta mai raggiunta dalla Germania riunificata nel 1990: un balzo di 6,2% rispetto al 2021.

Analizzando nel dettaglio le performances dei vari partiti, si parte dal rendimento dei tre partiti che sono stati partner di governo nell’esecutivo Scholz dal 2021 al 2024. Tutti e tre escono dalle urne come i grandi sconfitti. I Verdi hanno limitato i danni, calando solo del 3,1%, mentre Socialisti e Liberali hanno avuto tracolli rilevanti. I socialisti della SPD hanno perso ben 9,3 punti percentuali, puniti loro peggior risultato nella storia della repubblica federale tedesca; i liberali hanno subito un calo meno consistente (-7,1%), ma questo è bastato per relegarli sotto la soglia di sbarramento del 5% ed espellerli dal Bundestag. Tra gli sconfitti anche il nuovo partito personale “Alleanza Sahra Wagenknecht” (BSW). I sondaggi pre-elettorali lo davano costantemente oltre il 5% fino a poche settimane dal voto o addirittura in crescita rispetto al 6,17% ottenuto alle elezioni europee: il 4,97% ottenuto domenica sa di beffa, ma rappresenta comunque una sconfitta per la storica esponente della sinistra tedesca.

Altri tre partiti, oltre al piccolo partito della minoranza danese, eleggono al Bundestag e, a vario grado, risultano come i vincitori di queste elezioni. Vince ovviamente l’estrema destra dell’Alternative fur Deutschland (AfD), il cui successo era ampiamente previsto dai sondaggi d’opinione e che è stato confermato con il 20,8%, ben 10,3 punti in più rispetto a quattro anni fa. Mai un partito di estrema destra aveva raggiunto queste percentuali nella Germania del dopoguerra. Però, molto probabilmente, i 152 deputati dell’AfD non serviranno a formare alleanze nel nuovo parlamento. Infatti, l’Unione tra CDU e CSU, pur ottenendo con il 28,5% dei voti (+4,4% rispetto a quattro anni fa) il secondo peggior risultato della sua storia, è risultata comunque vincitrice e ha già escluso un’alleanza di governo con l’AfD, dimostrando che il cordone sanitario contro l’estrema destra ancora tiene. Rimane dunque la strada di una nuova edizione della Grosse Koalition con i socialisti dell’SPD. Anche se definirla “grosse” appare questa volta un eufemismo, visto che tale eventualità potrà basarsi solo su 328 seggi. Appena 13 seggi garantirebbero la maggioranza all’interno del Bundestag (316 seggi su 630 membri): il più piccolo margine di sempre. Per questo si ipotizza anche un ingresso dei Verdi in maggioranza.

Infine, dall’altro lato dello spettro politico, è da segnalare la crescita di Die Linke, che negli ultimi mesi ha saputo sganciarsi da sondaggi elettorali impietosi (nei quali ondeggiava sul 2%, addirittura sotto il magro 2,7% ottenuto alle elezioni Europee del giugno 2024) e alla fine ha raggiunto l’8,8%, crescendo di quasi 4 punti rispetto alle precedenti elezioni. I 64 seggi ottenuti rimarranno ovviamente all’opposizione, visto che un governo “Rot-rot-grün, tra SPD, Verdi e Linke al momento non è possibile sia perché i numeri sono insufficienti e sia perché sarebbe a livello federale una assoluta novità ancora mal digeribile dai dirigenti dell’SPD.

 

Le relazioni tra i partiti italiani e quelli tedeschi

I risultati tedeschi, come sempre, finiscono con l’avere un impatto diretto anche sul funzionamento e sul clima politico all’interno dell’Unione Europea. Specularmente al ruolo di leadership (quantomeno economica e demografica) che la Germania ricopre tra i Paesi membri, anche i partiti tedeschi da sempre ricoprono un ruolo preminente all’interno delle rispettive famiglie politiche. Ad esempio, quella dell’Unione CDU/CSU è sempre stata la delegazione nazionale più numerosa all’interno del gruppo Popolare nel Parlamento Europeo; i Verdi sono sempre stati il partito più numeroso (tranne nel 1999) nel gruppo corrispondente; similmente le delegazioni dell’SPD e della Linke sono sempre state tra le più grandi del gruppo Socialista e del gruppo della Sinistra; anche i Liberali, nonostante, a volte non abbiano superato la soglia di sbarramento del 5% che fino al 2014 valeva per la Germania, quando hanno eletto sono sempre stati una delle delegazioni più numerose del gruppo Liberale.

Da un certo punto di vista si può affermare che i partiti tedeschi hanno rappresentato l’ossatura dei gruppi parlamentari del PE e, successivamente, anche dei Partiti Politici Europei e delle Fondazioni politiche. Da questo punto di visto hanno sicuramente giovato sia le risorse economiche che caratterizzano i partiti tedeschi e le Stiftungen corrispondenti, ma anche la stabilità di affiliazione dei partiti stessi: non si registrano infatti cambi di gruppo da parte dei partiti tedeschi, come se il sistema politico del PE fosse quasi modellato su quello tedesco. Le cose si sono complicate con l’ingresso in scena di Alternative fur Deutschland. Infatti, al momento della loro prima elezione nel PE, nel 2014, i deputati del partito aderirono al gruppo Conservatore (ECR). Nel tempo, però, anche a seguito della continua radicalizzazione del partito, la delegazione al PE si è progressivamente spostata a destra, passando a Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD) nel 2016 e a Identità e Democrazia (ID) nel 2019. Dalla quale venne espulsa nel 2024 per alcune dichiarazioni controverse sulle SS, obbligandola dunque a farsi promotore del nuovo gruppo di estrema destra di Europe of Sovereign Nations (ESN).

Attualmente, dunque, i partiti tedeschi presenti sia nel Bundestag che nel PE si collocano in cinque gruppi: in quattro di questi trovano corrispondenti partiti italiani. La CDU/CSU trova Forza Italia nel gruppo Popolare, l’SPD e il PD condividono la membership nel gruppo Socialista e Democratico, i Grünen trovano gli eletti di Europa Verde nel gruppo Verdi-Ale e gli euro-deputati della Linke trovano i deputati del M5S e di Sinistra Italiana nel gruppo Left. L’unico partito che non condivide un’appartenenza con partiti italiani è AfD, in quanto i partiti di destra italiani, Fratelli d’Italia e Lega, aderiscono rispettivamente al gruppo dei Conservatori e a quello dei Patrioti.

Figura 1: Partiti tedeschi e partiti italiani nelle affiliazioni comuni

Fonte: elaborazione dell’autore

 

Le reazioni dei partiti italiani

Quasi certamente, la CDU esprimerà il prossimo cancelliere tedesco. Uno dei primi ad esultare per successo della CDU/CSU è stato il leader di Forza Italia, Antonio Tajani, che ha certificato la continuazione del “trend vincente dei partiti appartenenti alla famiglia del Ppe, vero argine alla deriva populista”. “L’Europa ha bisogno di una Germania forte, guidata da una coalizione moderata ed esperta, e di un cancelliere capace come Merz” ha aggiunto il vicepremier.

Il segretario della Lega, Matteo Salvini, seppur non condivida nessuna alleanza formale con AfD, ha subito ricordato che “Il cambiamento vince anche in Germania! AfD raddoppia i voti, nonostante attacchi e menzogne della sinistra: stop a immigrazione clandestina e fanatismo islamico, basta con le eco-follie, priorità a pace e lavoro, Europa da cambiare radicalmente. Brava Alice Weidel, avanti così!”.

Meno entusiaste sono le dichiarazioni provenienti da Fratelli d’Italia. Nel silenzio comprensibile del capo del partito, Giorgia Meloni, che ricopre anche il ruolo istituzionale di Presidente del Consiglio, spicca la dichiarazione del capodelegazione a Strasburgo Carlo Fidanza che si concentra sulla sconfitta della sinistra e delle posizioni ecologiste, dichiarando: “I primi risultati delle elezioni tedesche certificano il minimo storico della SPD e il fallimento delle politiche rosso-verdi che da un lato hanno reso la Germania più povera e meno sicura e, dall’altro, hanno causato molti danni alle politiche europee”. Sottolinea le differenze da AfD il capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Esteri alla Camera, Giangiacomo Calovini, “quando un partito arriva al 20 per cento, bisogna sempre interrogarsi sul perché. Detto questo, ci sono grandi distante tra noi e AfD, il loro ingresso al governo tramite accordo con la CDU non è mai stato un tema. Non c’è alcuna apertura verso di loro. […] Più che altro fa piacere vedere un partito conservatore di centrodestra come la CDU che esce rafforzato dal voto. Favorirà ancor di più l’ottimo rapporto che c’è tra il nostro governo e la Germania”. Sempre in FdI, a dimostrazione di un dibattito ancora in corso all’interno di un partito grande e dalle molte anime,  è Cirielli quando dichiara che “In Germania parleremo con Weidel e i suoi [cioè l’AfD]. Giusto che ora entrino nel governo. Tra noi di FdI e AfD c’è contiguità sui temi, soprattutto tra gli elettori. E Trump gli fa sponda. Sbaglierebbe la CDU ad escluderli”

Tra gli sconfitti si segna la dichiarazione della segretaria del PD Elly Schlein che rimane in cautela: “Vedremo quale maggioranza si comporrà […] C’è stata una grande affluenza, la più alta dagli anni Novanta, ed una richiesta di cambiamento. È stato sconfitto il governo uscente di SPD, Verdi e liberali”. Però, sapientemente, ne approfitta per ribadire la sua linea in campo economico: “Sul voto ha pesato molto la condizione materiale delle persone: inflazione, caro energia, difficoltà delle imprese, la recessione economica. Le destre hanno la spinta di Trump e Musk ma non sono imbattibili. Non le batteremo rincorrendole ma trascinandole dove non sanno dare risposte. Qui in Italia, in particolare, sul terreno economico e sociale”.

Sul lato ecologista, il leader di Europa Verde Angelo Bonelli dichiara che “Le elezioni in Germania sono state profondamente condizionate dalle ingerenze di Elon Musk, esponente del governo Trump e proprietario della piattaforma X […] Ci troviamo di fronte a un pericoloso precedente: il proprietario di un colosso tecnologico globale ha utilizzato la sua piattaforma per alterare il dibattito pubblico, diffondendo disinformazione, amplificando le posizioni dell’estrema destra e attaccando i partiti democratici.  I Verdi in Germania hanno resistito nonostante gli attacchi e la campagna di fake news alimentata dai sostenitori dell’estrema destra. La loro presenza resta fondamentale per la stabilità democratica e la transizione ecologica in Europa.”

Infine, in ambito liberali è curioso come gli esponenti dei tre partiti che in teoria sarebbero collegati allo scomparso FDP evitino di affrontare il tema e si concentrino su altro.

Ad esempio, Matteo Renzi, leader di Italia Viva, sottolinea che, sebbene “la destra di Musk e Salvini abbia ottenuto un risultato straordinario non governerà e il numero che bisogna chiamare oggi è quello di Merz”. Inoltre, non perde occasione per colpire la premier Meloni, ricordando che “i primi viaggi del nuovo cancelliere saranno a Parigi e Varsavia, non a Roma”.

Ancora tra i liberali, il leader di Azione, Carlo Calenda ricorda che sia “positivo che in Germania la CDU abbia vinto le elezioni. Speriamo che formi un Governo forte ed europeista, il che non è scontato. L’importante è ricordarci che il futuro dell’Europa lo decidiamo solo noi europei, al di là delle differenti visioni politiche. Nessuno ci difende, nessuno ci dà gas a basso costo, né nessuno ci garantisce sicurezza. È tutto nelle nostre mani”.

Spostandoci a sinistra si nota la dichiarazione del leader di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni , che prima sottolinea la negatività del quadro politico che si sposta a destra, per poi arrivare però a sottolineare il successo dell’omonimo partito tedesco. “il voto in Germania con l’avanzata dell’estrema destra xenofoba e neofascista di AfD è una pessima notizia per l’Europa […] In questo quadro, e di fronte al crollo dell’SPD che paga le scelte sulla guerra e sulla crisi sociale, è invece straordinariamente positivo il risultato della Linke che raddoppia i voti ed è nettamente prima tra i giovani. Questo risultato dimostra una volta di più come l’alternativa al nazionalismo e alla destra si costruisce con proposte chiaramente alternative e coraggiose”.

Dalle parti del M5S l’esito tedesco assume un’altra sfumatura. Giuseppe Conte, sfidando le sensibilità dei suoi nuovi alleati al parlamento europeo di The Left, in passato sembrava in procinto di aprire un dialogo con il movimento di Sahra Wagenknecht, una delle sconfitte delle elezioni. La “sinistra conservatrice” del BSW aveva stuzzicato l’anima post-ideologica del M5S, magari fredda sul tema dell’immigrazione (e della cittadinanza). Pertanto, non si registrano entusiasmi da parte del M5S, né soddisfazioni per la Linke, nonostante condividano l’appartenenza al gruppo Left nel PE. Piuttosto dal M5S si manifestano più le preoccupazioni sul fronte della guerra. Dalla delegazione Bruxelles, in particolare, evidenziano che con una futura presidenza di Friedrich Merz si potrebbe andare verso un’ulteriore escalation sul fronte russo-ucraino. “Le note posizioni del futuro cancelliere – dice ad esempio l’eurodeputato Danilo Della Valle – favorevole all’invio di missili Taurus, non lasciano ben sperare”. Suonano diverse le parole di Roberto Fico. “L’Europa dev’essere un equilibratore rispetto alla nuova postura Usa – sostiene l’ex presidente della camera – Le elezioni tedesche porteranno Merz alla cancelleria. E anche lui ha detto che bisogna essere indipendenti, ciò che Meloni non riesce a fare perché è sempre a trazione americana”.

Infine, seppur non presente nel Parlamento Italiano si segnala il giudizio positivo del segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo, per la Linke, con la quale nel 2004, Rifondazione Comunista fondò il Partito della Sinistra Europea: “la Linke è stata premiata come il partito più coerentemente antifascista, dopo una campagna fortemente caratterizzata sulla questione sociale, schierata dalla parte della classe lavoratrice e non dei miliardari. Il crollo della SPD invece dovrebbe indurre i socialisti europei, Pd compreso, a rompere definitivamente con le loro politiche neoliberiste e guerrafondaie”.

 

Destreggiarsi tra gli alleati sconfitti e i risultati degli avversari

Da un punto di vista comunicativo appare evidente che per i partiti che condividono la stessa collocazione europea è facile condividere gli entusiasmi quando i risultati sono positivi. Questo è il caso di Forza Italia verso la CDU/CSU, con la quale condivide l’appartenenza al gruppo parlamentare del PE e al partito politico europeo.

Quando però i risultati sono negativi e ci si trova a dover dire qualcosa (come avviene per PD, Europa Verde, Italia Viva e Azione) si cerca di minimizzare la sconfitta, si prova a dire che anche gli avversari non hanno riportato vittorie strabilianti, ma si arriva anche, come nel caso di Italia Viva e Azione, a cercare quasi un’altra collocazione: il loro silenzio sul partito “fratello” FDP è eclatante così come è significativa la soddisfazione di Renzi e Calenda per la vittoria del centrodestra della CDU.

Quando non ci sono invece delle affiliazioni comuni nette (vedi il caso di Lega, Fratelli d’Italia e M5S) c’è spazio per dichiarazioni di più ampio raggio. La Lega quindi prova, seppure non sia alleata a livello internazionale all’AfD, a sfruttarne il successo e, magari in prospettiva, anche a ricomporre la frattura presente nel PE tra il gruppo dei Patrioti e quello dei Sovranisti. Ricomposizione che non interessa invece a Fratelli d’Italia, che non avendo partiti direttamente alleati nel contesto tedesco, dichiara abbastanza apertamente che l’interlocutore privilegiato è la CDU, partito di centrodestra di provenienza democratico-cristiana. È evidente come l’atteggiamento di FdI rientri nella grande strategia, già dichiarata prima delle elezioni europee del 2024, di una possibile alleanza organica tra il centrodestra del PPE e i conservatori di ECR. Infine, il M5S, che è nuovissimo alle affiliazioni europee (per tanto tempo si è auto-relegato negli Non-Iscritti del PE) e che quindi sempre ancora acerbo nel saper interpretare e sfruttare le dinamiche transnazionali. Per concludere, dunque si può affermare che in un quadro politico in continua evoluzione, le strategie comunicative dei partiti riflettono non solo la necessità di gestire i risultati elettorali, ma anche le ambizioni e le incertezze sulle alleanze, attuali e future. Tra riposizionamenti tattici e silenzi strategici, emerge chiaramente come il contesto europeo sia diventato un terreno decisivo per ridefinire identità e prospettive politiche.

 

Video “La guerra in Ucraina e l’ordine internazionale: niente sarà più come prima?”

Video del seminario dal titolo La guerra in Ucraina e l’ordine internazionale: niente sarà più come prima?”, svoltosi Venerdì 18 marzo,  dalle 9.00 alle 13.00, presso il polo didattico le Piagge in formula blended, e organizzato dal Dipartimento di Scienze politiche e l’Osservatorio per la Politica e le Istituzioni.

Il seminario ha avuto una partecipazione straordinaria, con circa 70 presenze in aula e un picco di 280 presenze online.

Da una parte si è cercato di contestualizzare storicamente il drammatico conflitto ricostruendo la storia delle relazioni tra Russia e Ucraina, USA e Unione Europea. Dall’altra, di riflettere sulle implicazioni di tale conflitto per il sistema di relazioni internazionali, il diritto internazionale, l’Unione Europea e i paesi della regione del MENA.

La lista degli interventi, che potrete rivedere nel video, sono i seguenti

Carmelo Calabrò
Saluti istituzionali

Massimiliano Andretta
Introduzione alla giornata

Il contesto storico-politico

Elena Dundovich
Oriente vicino o estremo Occidente? L’Ucraina contemporanea, dall’URSS alla NATO

Andrea Giannotti
La statualità ucraina e il mondo russo. Gli slavi orientali dalla Rus’ di Kiev al XX Congresso

Marinella Neri
La fine della guerra fredda: un’occasione persa per coinvolgere la Russia nel nuovo sistema di sicurezza europeo?

Simone Paoli
Stati Uniti, Unione Europea e Federazione Russa: un tentativo di periodizzazione storica

Interventi e domande dal pubblico

Implicazioni ed effetti

Sara Poli
L’Unione europea di fronte ala guerra tra l’Ucraina e la Russia

Marcello Di Filippo
L’invasione russa dell’Ucraina: crisi o opportunità per il diritto internazionale?

Francesco Tamburini
Ripercussioni della crisi Ucraina sulla regione del MENA

Enrico Calosi
La crisi in Ucraina alla luce delle teorie delle relazioni internazionali

Interventi e domande dal pubblico

L’elezione di Metsola alla presidenza del Parlamento Europeo e i nuovi equilibri tra i partiti politici europei

di Enrico Calossi, OPPR

L’elezione di Roberta Metsola ha rappresentato un cambiamento del quadro politico rispetto al contesto che due anni e mezzo fa consentì l’elezione del recentemente scomparso David Sassoli. Apparentemente non sembra ci siano novità, perché ormai dagli anni ottanta il parlamento europeo è guidato da una presidenza popolare, per una metà della legislatura, e da una presidenza socialista, per l’altra metà. O viceversa. E anche questa volta la prassi della Grand Coalition (o Grosse Koalition, se si vuol dar credito ad una crescente germanizzazione dell’Unione) tra Popolari, Socialisti e Liberali appare confermata. Solo nella legislatura 1999-2004 il patto tra Popolari e Socialisti non fu rinnovato perché i Popolari preferirono accordarsi con i Liberali. Infatti, nella prima parte della legislatura, la presidenza spettò alla popolare Nicole Fontaine, nella seconda parte, al liberale Pat Cox.

Le prime difficoltà nel ‘core’ dei partiti europei e l’elezione di Sassoli

Nel 2014, all’inizio della nuova legislatura, il socialista Martin Schulz fu eletto presidente del Parlamento con una confortevole maggioranza che rifletteva l’accordo tra Popolari, Socialisti e Liberali. Nel gennaio del 2017 però il consueto passaggio di testimone tra Popolari e Socialisti non avvenne in modo indolore. Infatti, in quell’occasione ci furono sei candidati: di fatto ogni gruppo, tranne i Liberali, presentò un proprio candidato. Le regole del PE, poi, impongono alla quarta votazione la limitazione delle candidature ai due più votati nella terza votazione. Così il popolare Antonio Tajani poté battere il socialista Gianni Pittella. Chiaramente il sistema di partito era di fronte ad una rottura, mascherata però dal fatto che l’alternanza tra Socialisti e Popolari si era comunque realizzata.

Nel 2019, la tradizionale alleanza sembrava poter essere rinnovata. Infatti, David Sassoli fu esplicitamente designato in seguito al tipico accordo tra Popolari, Socialisti, e Liberali, definito spesso nella letteratura specialistica come ‘core’ del sistema partitico a livello europeo. Però, i risultati furono diverso. Infatti, Sassoli, nonostante avesse sulla carta il sostegno di 444 deputati, ricevette al primo turno solo 325 voti, sotto la soglia dunque dei 332 voti necessari per essere eletto. Agli altri candidati, il conservatore di ECR Jan Zaharadil, alla verde Ska Keller e alla candidata della sinistra del gruppo Gue-Ngl, Sira Rego, andarono rispettivamente 162, 133 e 42 voti. La candidata verde ottenne dunque 59 voti in più rispetto a quanti fossero i membri del gruppo Verde/Regionalista (74 deputati) e il conservatore ottenne, addirittura, ben cento voti in più rispetto all’entità del gruppo di riferimento (i Conservatori e Riformatori Europei / ECR) che constava di 62 seggi.

 

Tabella 1: La composizione dei gruppi politici al Parlamento Europeo, 2019 e 2022

Famiglia Politica Nome gruppo Acronimo Seggi 2019

Pre-Brexit

Seggi 2022

Post-Brexit

Popolari Gruppo del Partito Popolare Europeo EPP 182 177
Socialisti Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici in Europa S&D 154 144
Liberali Renew Europe RE 108 101
Verdi e regionalisti Verdi e Alleanza Libera Europea G-EFA 74 72
Destra Sovranista Identità e Democrazia ID 73 70
Conservatori Conservatori e Riformatori europei ECR 62 64
Sinistra The Left GUE-NGL 41 39
Non iscritti Non iscritti NI 57 39

 

Servì dunque un secondo turno di votazione. Questa volta Sassoli riuscì a migliorare il proprio risultato, passando a 345 voti (cioè 11 più del necessario), ma ancora ottenendo molto meno dei 444 voti a disposizione dei gruppi popolare, socialista e liberale. E pertanto, il 3 luglio 2019, Sassoli divenne presidente del parlamento europeo, anche se il risultato rappresentava un chiaro segnale del peggioramento dei rapporti tra i tre gruppi.

Per quanto riguarda le 14 Vicepresidenze del Parlamento Europeo, quattro andarono ai Popolari, tre ai Socialisti, due rispettivamente ai Verdi e ai Liberali e uno rispettivamente alla Sinistra e ai non iscritti (in particolare al Movimento 5 Stelle).

I gruppi parlamentari e la scelta delle cariche monocratiche dell’Unione

Le difficoltà nei rapporti tra i gruppi del ‘core’ riemersero pochi giorni dopo quando, il 16 luglio 2019, la proposta del Consiglio Europeo di eleggere Ursula Von Der Leyen alla Presidenza della Commissione fu approvata dal Parlamento Europeo. Anche questa volta, la Von Der Leyen avrebbe potuto attendersi i 444 voti a disposizione di Popolari, Socialisti e Liberal. In realtà i voti a favore furono solo 383, cioè appena nove sopra il quorum di 374 voti, nonostante anche la nutrita pattuglia parlamentare del Movimento 5 Stelle (nel gruppo dei Non Iscritti) avesse dichiarato di votare a favore della Von Der Leyen. Questo fatto fu particolarmente interessante per gli osservatori italiani, che infatti coniare “maggioranza Ursula” lo schema a sostegno della Von Der Leyen, anche per sottolineare lo spostamento del M5S su posizioni filo-europeisti. Comunque, anche in questa occasione, seppure non al livello di quanto successo quindici giorni prima per Sassoli, i tre partiti non riuscirono a assicurarsi tutti i voti a disposizione.

Nell’autunno del 2019 continuò la designazione delle posizioni monocratiche del sistema politico europeo. La scelta dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera confermò, con la designazione dello spagnolo Josep Borrell, il tradizionale predominio su questa figura a vantaggio dei socialisti (gli alti rappresentanti precedenti, Solana, Ashton e Mogherini, erano tutti socialisti). Però la scelta di un liberale, il belga Charles Michel, alla carica di Presidente del Consiglio Europeo, fece ipotizzare la nascita di una saldatura tra Liberali e Popolari più solida rispetto a quella ormai quarantennale tra Popolari e Socialisti.

Così si alimentarono rumors di una probabile rottura del patto tra socialisti e popolari, fino al punto che, nell’autunno del 2021, sembrava ormai molto probabile una ricandidatura di David Sassoli alla presidenza. Tra le varie ragioni, oltre alla cristallizzazione delle difficoltà tra socialisti e popolari, figurava anche l’aver speso gran parte dell’ultima semi-legislatura nel concentrare l’impegno della presidenza quasi unicamente a garanzia dell’agibilità fisica e politica del parlamento in tempi di Covid Questo aveva spinto Sassoli e i socialisti a tentare la strada della nuova candidatura. In effetti, sulla carta, se Sassoli fosse stato in grado di intercettare non solo gli scontati voti dei Socialisti e della nutrita pattuglia del M5S, ma anche buona parte dei voti dei Verdi, della Sinistra e soprattutto dei Liberali, sarebbe riuscito nell’impresa della rielezione. Anche perché, dall’altro lato, i Popolari non avrebbero potuto ampliare molto la propria base elettorale, temendo di doversi alleare solo con gli euroscettici sovranisti dei gruppi ID e ECR.

A metà dicembre, però, anche per il peggioramento delle sue condizioni di salute, Sassoli dichiarò ufficialmente di ritirare la sua candidatura, con l’obiettivo di “non spaccare” la “maggioranza Ursula”, cioè, per l’appunto, l’alleanza tra Popolari, Socialisti, Liberali e Pentastellati. La strada appariva dunque spianata per una candidatura dei Popolari, i quali già a novembre 2021 avevano rotto gli indugi e avevano proposto la giovane maltese Roberta Metsola alla presidenza.

Roberta Metsola ottiene voti anche dalla destra euroscettica e sovranista

A inizio gennaio si stava quindi prospettando lo stesso schema del 2019, in base al quale Metsola era la candidata del ‘core’ rappresentato da Popolari, Socialisti e Liberali. E ancora come nel 2019, Verdi, Sinistra e Conservatori avrebbero tutti presentato un proprio nome di bandiera. Probabilmente, a seguito di questo schema, i Socialisti sarebbero stati anche pronti a non votare (ricordo che il voto è segreto) in massa per la Metsola. Sia per rendere pan per focaccia per lo sgarbo incassato nel luglio 2019 da Sassoli (i 100 voti in meno), ma anche perché le posizioni chiaramente anti-abortiste della politica maltese mal collimano con gli ideali politici dei socialisti europei.

Ma il fatto nuovo, che ha scardinato gli schemi, è stato l’inaspettato ritiro del candidato conservatore e l’esplicita presa di posizione di alcuni euroscettici di destra, sia tra i conservatori più ‘soft’ di ECR, guidati da Giorgia Meloni, sia tra quelli più ‘hard’ di Identità e Democrazia (ID), a favore della Metsola, come ad esempio ha fatto esplicitamente Matteo Salvini. Il risultato infatti è stato superiore a quanto ragionevolmente la Metsola poteva aspettarsi: di fronte ad una platea potenziale di 422 voti provenienti dai tre partiti ‘core’, la giovane neo-presidente ha ottenuto 458 voti, quindi 36 più del previsto. Ciò dimostra che è stata in grado di pescare anche nell’elettorato euroscettico e conservatore. Probabilmente l’apporto del voto conservatore è stato anche maggiore dei 36 voti in più. Infatti, visto che le altre due candidate alternative, la verde Kuhnke e ancora Rego della Sinistra hanno ottenuto 47 voti in più rispetto ai loro rispettivi 72 e 39 voti previsti, è molto probabile che i voti in più ottenuti dalle due candidate provengano da deputati socialisti o liberali. Dunque questi 47 voti sarebbero dovuti a mancare alla Metsola. Ma sarebbero stati ampiamente bilanciati dall’arrivo di voti euro-scettici e conservatori. Dunque, se in più occasioni in passato si era ventilata la possibilità di un allargamento del ‘core’ dei gruppi del PE verso l’area ambientalista e verde, questa volta l’allargamento è stato a destra. Resta da capire quanto ciò sia episodico o quanto possa avere conseguenze più durature.

Un altro segnale da cogliere arriva dall’elezione dei nuovi vicepresidenti del Parlamento. Ovviamente si inverte il rapporto di forza tra Popolari e Socialisti, perché chi detiene la presidenza ottiene, come bilanciamento, meno vice-presidenti. Quindi da gennaio 2022 i Socialisti hanno cinque vicepresidenti, mentre i Popolari ne hanno tre. Si rafforzano però i Liberali, passando da due a tre e i conservatori di ECR eleggono un primo vicepresidente, che non avevano nel 2019. In compenso, mentre la Sinistra continua ad eleggere un suo vicepresidente, i Verdi passano da due a uno e i non-iscritti (in particolare il Movimento 5 Stelle) perde il suo unico vicepresidente. Una dinamica quindi che sembra confermare uno slittamento verso destra degli equilibri interni al Parlamento europeo.

Le prospettive future

Alcuni leader nazionali hanno provato quasi subito a reagire a questo quadro politico potenzialmente nuovo. Uno di questi è stato il presidente francese Emmanuel Macron, azionista di maggioranza del gruppo liberale Renew Europe, che ha proposto di inserire il diritto di scelta in materia di aborto come elemento fondamentale della Carta dei Diritti dell’Unione Europea. Anche nell’area socialista è in corso un dibattito critico verso la scelta del sostegno alla Metsola. Bisogna tenere di conto, però, che nelle dinamiche di elezione delle cariche interne al Parlamento Europeo il criterio del continuum destra-sinistra è solo uno dei vari presenti. Sicuramente rimane in campo anche la dicotomia tra pro-integrazione ed euroscetticismo, ma parlando del complesso contesto continentale bisogna tener conto anche degli equilibri tra le nazionalità ed altri elementi sociodemografici. La scelta di una presidente, giovane, donna, proveniente da un Paese del Mediterraneo e dalla ‘nuova Europa’ post grande allargamento del 2004, disegnano un quadro di ‘simpatie’ verso la Metsola che va al di là delle classiche contese destra/sinistra o integrazionisti/antieuropei. Inoltre, il quadro istituzionalmente complesso e sempre in divenire dell’Unione ricorda che il Parlamento Europeo ha necessariamente bisogno di un grado di coesione elevato per essere in grado di contrattare le quote di potere che, al di là della lettera dei trattati europei, spettano al Parlamento stesso, al Consiglio dell’Unione, al Consiglio Europeo, alla Commissione e agli Stati.

Ovviamente le prossime sfide che presto chiameranno il Parlamento a discutere ed eventualmente a decidere su temi quali la gestione dei fondi del recovery fund, crescita delle disuguaglianze, inflazione, proprietà intellettuale dei brevetti sui vaccini, cambiamento climatico e transizione ecologica, ci faranno capire se i nuovi assetti istituzionali e la recente e parziale apertura verso le forza euroscettiche e sovraniste si tradurranno in uno slittamento verso destra anche delle scelte approvate dal Parlamento stesso.

Leggere Pareto in lockdown. Il più scomodo fra i classici delle scienze sociali e i dilemmi politici della pandemia.

di Marco Di Giulio

Un po’ per lavoro, un po’ per diletto e forse con qualche dose di masochismo, in questo anno passato prevalentemente a casa, ho speso molte ore su alcuni fra i principali scritti di Vilfredo Pareto. Il costante contrasto con le notizie che riguardavano la pandemia, la sua gestione, i conflitti che ne sono sorti, mi ha portato involontariamente a leggere alcuni i temi del dibattito politico attraverso il suo sguardo sociologico. Nelle righe che seguono mi concentro su degli aspetti del pensiero di Pareto che, benché noti agli specialisti, dimostrano quanto fra i classici delle scienze sociali Pareto sia per certi versi quello invecchiato meglio. Perché, credo, riuscì a cogliere tra XIX e XX secolo alcuni meccanismi di funzionamento delle società contemporanee che si sarebbero completamente dispiegati solo nei decenni successivi e sono dominanti nel contesto attuale; elementi che l’emergenza Covid-19 ha portato all’estremo, rendendoli oggetto di discussione pubblica. Ne ho distinti due, benché intimamente collegati: 1) Il problema dell’efficacia delle politiche pubbliche e della sua valutazione 2) il rapporto fra conoscenza e politica.

 

L’efficacia come problema

Pareto è universalmente noto, come economista, per aver definito il concetto di efficienza. Il suo contributo, tuttavia, si è spinto oltre. Fra i classici delle scienze sociali suoi contemporanei, Pareto è stato il primo ad intuire come l’esito delle attività dei governi non fosse qualcosa i cui effetti intenzionali potessero darsi per scontati, mentre quelli non-intenzionali possono superare i primi per importanza. Le elites politiche sono felicissime di farsi carico di domande provenienti dalla società, le inseriscono all’interno di cornici ideologiche e programmatiche ed alla fine vengono trasformate in interventi che si spera daranno una risposta efficace. Curiosamente, in un momento di estrema espansione delle attività degli Stati e di fiducia nel progresso, Pareto immaginò la strutturale incapacità dei governi nel tentativo di raggiungere i loro obiettivi di policy. L’efficacia dell’azione di governo è tutt’altro che scontata e in più, anche quando sembra esserci, è difficile da riconoscere e valutare. Le scienze sociali dal secondo dopoguerra sino ai giorni nostri non hanno fatto che certificare quanto l’ingegneria politico-amministrativa sia fallace. Pareto non solo pose il problema, ma ne colse dei meccanismi basilari e sottili.

 

Efficacia vs. Efficienza

Molto spesso nel discorso pubblico e finanche nelle chiacchiere da bar i concetti di efficacia ed efficienza vengono pronunciati in serie, quasi fossero sinonimi. L’azione dell’organizzazione di cui facciamo parte, le politiche del governo del nostro paese sono sempre descritte come “efficaci ed efficienti”. Tuttavia, ci sono dei contesti in cui questo non è possibile e fra efficacia ed efficienza bisogna scegliere. In particolare, in settori dove la sicurezza o la salute sono obiettivi primari, perseguire in maniera ossessiva l’efficienza (spesso la mera economicità, spacciata per efficienza, vedi: “i tagli lineari” alla spesa) può contribuire a istituzionalizzare politiche arroganti, che si rivelano fragili al verificarsi di eventi imprevisti. La gestione di una pandemia è un caso tipico in cui per essere minimamente efficaci occorre sacrificare molta efficienza. In un’analisi pubblicata da the Atlantic, Zeynep Tufekci ha citato esplicitamente il “principio di Pareto” o “principio della scarsità dei fattori” per sottolineare come fenomeni sociali complessi siano spesso causati da “piccole cause”. Il riferimento è all’importanza dei superspreader e dei cluster come principali fattori alla base della diffusione di una pandemia. Quando siamo di fronte a problemi che presentano queste caratteristiche, efficacia ed efficienza divergono necessariamente: il caso delle misure di contenimento del contagio rappresenta un esempio lampante in questo senso. L’obbligo di indossare la mascherina all’aperto o la chiusura degli impianti sciistici sono chiaramente degli interventi sub-ottimali da un punto di vista dell’efficienza media generale, perché impongono dei costi – economici e non – indifferenziati per ridurre al minimo la probabilità, già di per sé bassa, che poche singole persone creino dei focolai di grandi dimensioni. Il successo di policy è in casi come questi definito dalla capacità di impedire degli eventi discreti, rari, difficili da controllare puntualmente. La ridondanza delle misure richieste è in contraddizione con il principio di efficienza attraverso cui, invece, valutiamo la gran parte delle politiche siano pubbliche o di enti privati. L’efficacia di una politica pubblica, intuì Pareto oltre cento anni fa, non dipende mai da politiche che hanno dato prova di funzionare mediamente. In questo senso, nessuna task force di esperti è garanzia di successo. Ricorre più volte l’idea, nel Trattato di sociologia generale, che anche il più illuminato dei sovrani insieme ai più capaci dei suoi burocrati possano benissimo produrre dei fiaschi, così come dei governanti mediocri possano rocambolescamente avere successo. Il fatto che nel contesto europeo paesi a cui siamo soliti riconoscere un’elevata capacità amministrativa abbiano clamorosamente commesso gravi errori nella gestione del contagio sembra confermare questa intuizione.

 

L’efficacia fra realtà e superstizione

Per Pareto il successo di una politica è piuttosto contenuto nella capacità di assecondare dei meccanismi sociali esistenti, andando incontro alle inclinazioni di chi l’intervento governativo lo riceve o ne è in qualche modo toccato. La bravura del policymaker –  ammesso che sia interessato all’obiettivo dichiarato e non si limiti meramente a perseguire dei secondi fini – starebbe nel disegnare gli interventi su misura, facendo sì che gli interessi e le mentalità esistenti nel contesto specifico ne rafforzino l’efficacia, anziché sabotarla. Tuttavia, spesso il successo è figlio di fattori totalmente estranei al modo in cui le politiche sono disegnate e non c’è merito alcuno nei governanti. Il protezionismo tedesco, ripeteva Pareto correggendo i suoi primi scritti economici, è un caso di successo non per la bontà delle politiche economiche e industriali implementate, ma perché l’assetto istituzionale e politico della Germania, per ragioni del tutto casuali, era favorevole agli esiti attesi.  Inoltre, Pareto ci suggerisce che in moltissimi casi – certamente nei più rilevanti – non siamo in grado di misurare quanto determinati fenomeni sociali siano l’effetto di interventi di policy che intenzionalmente pretendono di esserne la causa e quanto invece le cose sarebbero comunque andate allo stesso modo anche senza alcuna politica. È plausibile che la verità sia da qualche parte nel mezzo, ma questo, per Pareto, non sposta i termini del problema e soprattutto le sue conseguenze politiche. L’ambiguità è una condizione che struttura i conflitti politici perché questi non riproducono meccanicamente gli interessi in gioco, ma sono veicolati dalla capacità argomentare, persuadere e manipolare. Le politiche in qualche modo collegate alla pandemia, il loro stratificarsi nel tempo, la diversa natura degli obiettivi (si pensi al cashback in relazione alla necessità di evitare assembramenti), la sistematica incapacità di monitoraggio del fenomeno ci hanno dato prova di come l’ambiguità, più o meno cercata, abbia prodotto nei mesi un costante “logomachia” di interpretazioni contrastanti su cui gli attori politici si sono misurati, talvolta acquisendo influenza o consenso, talvolta rinculando.

 

Scienza e politica

Non esiste né può esistere un governo della scienza. Con questa convinzione Pareto consumò la sua rottura con la tradizione positivista, procurandosi, nell’interpretazione di Raymond Aron, anche il futuro disprezzo del mondo intellettuale. L’anti-intellettualismo di Pareto ha tuttavia dimostrato di avere solide basi analitiche. Infatti, il sociologo intuì, anche in questo caso in anticipo sui tempi, che la conoscenza scientifica è un processo sociale ed in quanto tale condizionato, nel bene e nel male, da fattori umani, organizzativi, politici e ideologici. Sono numerosi i passaggi in cui l’autore si è sardonicamente preso gioco sia degli scientisti così come di coloro che oggi chiameremmo negazionisti, o di entrambi simultaneamente. In una nota a piè di pagina del suo Trattato (§2154f), Pareto prende spunto da manifestazioni avvenute in Svizzera nel 1913 contro le prime campagne vaccinali per mettere in luce i dilemmi dell’uso politico della scienza. L’emergente dibattito sulla vaccinazione obbligatoria gli sembrò immediatamente un nervo scoperto delle democrazie perché – osservava – “sebbene coloro che si oppongono alle vaccinazioni abbiano probabilmente torto”, la saldatura fra scienza ufficiale e potere coercitivo dello Stato appariva come un fenomeno potenzialmente pericoloso per la libertà di espressione e, quindi, per la scienza stessa.

 

Lo “scientismo” è una narrazione che fa bene alla scienza?

Pareto avrebbe lanciato invettive anche di fronte all’attuale dibattito pubblico sul rapporto fra scienza e politica. In particolare, immagino che avrebbe smascherato due opposte retoriche che campeggiano sulle principali testate di informazione. Da una parte quella della fiducia incondizionata nella “Scienza”, dall’altra quella del suo rifiuto su basi superstiziose o di mero interesse. Avrebbe attaccato principalmente la prima, per il semplice gusto di pensare contro la maggior parte degli intellettuali progressisti (oggi diremmo liberal) e perché avrebbe trovato il fronte negazionista non intellettualmente stimolante. Di certo avrebbe notato come slogan del tipo “la scienza ci salverà” siano intrinsecamente ideologici, perché la scienza, come “la democrazia, il socialismo, il cristianesimo” – suoi idoli polemici preferiti – non sono altro che delle astrazioni. Evidenzierebbe come i continui conflitti fra esperti non siano solo, né principalmente, il riflesso di un difetto di comunicazione pubblica di persone che fanno un altro mestiere. Al contrario riconoscerebbe conflitti fra professionisti e alti funzionari delle amministrazioni sanitarie che hanno per oggetto il controllo di risorse strategiche, la difesa del prestigio legato alla propria specifica specializzazione, da cui scaturiscono. Elementi da cui scaturiscono definizioni diverse del problema e di come affrontarlo e che non sono compatibili con un’idea irenica della “Scienza”. Piuttosto, Pareto si chiederebbe se questa narrazione della scienza sia più o meno utile per la collettività o sia soltanto funzionale alla legittimazione della classe politica di turno. Ma forse sarebbe una domanda retorica.

Marco Di Giulio è Ricercatore in Scienza Politica presso l’Università di Genova, dove insegna Scienza dell’amministrazione e Valutazione delle politiche pubbliche